giovedì 15 marzo 2012

di Marco Travaglio | 13 marzo 2012
Fate schifo
Ma interessa ancora a qualcuno sapere perché vent’anni fa è morto Paolo Borsellino con gli uomini di scorta? Sapere perché l’anno seguente sono morte 5 persone e 29 sono rimaste ferite nell’attentato di via dei Georgofili a Firenze, altre 5 sono morte e altre 10 sono rimaste ferite in via Palestro a Milano, altre 17 sono rimaste ferite a Roma davanti alle basiliche? Interessa a qualcuno tutto ciò, a parte un pugno di pm, giornalisti e cittadini irriducibili? Oppure la verità su quell’orrendo biennio è una questione privata fra la mafia e i parenti dei morti ammazzati?

È questa, al di là delle dotte e tartufesche disquisizioni sul concorso esterno in associazione mafiosa, la domanda che non trova risposta nel dibattito (si fa per dire) seguìto alla sentenza di Cassazione su Marcello Dell’Utri e alle parole a vanvera di un sostituto Pg. O meglio, una risposta la trova: non interessa a nessuno. A parte i soliti Di Pietro e Vendola, famigerati protagonisti della “foto di Vasto” che va cancellata o ritoccata come ai tempi di Stalin, magari col photoshop, non c’è leader politico che dica: “Voglio sapere”. Anzi, dalle dichiarazioni dei politici che danno aria alla bocca senza sapere neppure di cosa parlano, traspare un corale “non vogliamo sapere”.

Forse perché sanno bene quel che emergerebbe, a lasciar fare i magistrati che vogliono sapere: il segreto che accomuna pezzi di Prima e Seconda Repubblica, ministri e alti ufficiali bugiardi e smemorati, politici, istituzioni, apparati, forze dell’ordine, servizi di sicurezza. Quel segreto che viene violato solo quando proprio non se ne può fare a meno perché mafiosi e figli di mafiosi han cominciato a svelarlo. Quel segreto che ha garantito carriere ai depositari e ai loro complici. Già quel poco che si sa – che poi poco non è – è insopportabile per un sistema che si ostina a raccontarci la favoletta dello Stato da una parte e dell’Antistato dall’altra, l’un contro l’altro armati. La leggenda del “mai abbassare la guardia”, delle “centinaia di arresti e sequestri”, “della linea della fermezza”, del “tutti uniti contro la mafia”, mentre dietro le quinte si tresca con quella per venire a patti, avere voti, usarla come braccio armato e regolare i conti sporchi della politica, rimuovendo un ostacolo dopo l’altro: da Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, giù giù fino a Falcone e Borsellino.

Ora, nel ventennale di Capaci e via D’Amelio, prepariamoci a un surplus di retorica, nastri tagliati, cippi, busti e monumenti equestri, moniti quirinalizi, lacrime tecniche e sobrie, corone di fiori delle alte cariche dello Stato (anche del presidente del Senato indagato per concorso esterno che spiega all’Annunziata la sua teoria di giurista super partes sul concorso esterno senza neppure arrossire). Sfileranno in corteo trasversale quelli che -come da papello – han chiuso Pianosa e Asinara, svuotato il 41-bis facendo finta di stabilizzarlo come da papello, abolito i pentiti per legge, tentato di abolire pure l’ergastolo, regalato ai riciclatori mafiosi tre scudi fiscali.

Quelli che han detto “con la mafia bisogna convivere” e ci sono riusciti benissimo. Casomai interessasse a qualcuno, i disturbatori della quiete pubblica riuniti nell’Associazione vittime di via dei Georgofili, guidata da una donna eccezionale, Giovanna Maggiani Chelli, hanno appena reso noto la sentenza con cui la Corte d’assise di Firenze ha mandato all’ergastolo l’ultimo boss stragista, Francesco Tagliavia. “Una trattativa – scrivono i giudici – indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. Dopo il concorso esterno, se ci fosse un po’ di giustizia, la Cassazione dovrebbe abolire anche la strage. Oppure unificare i due reati in uno solo, chiamato “schifo”.

Il Fatto Quotidiano, 13 Marzo 2012

domenica 2 ottobre 2011

dal fatto quotidiano

Il Parlamento degli schiavi
L’Italia si è incastrata in una secca dalla quale non può uscire. Lo sguardo si abbassa fino a Berlusconi, per ricordare la sua grave e immensa responsabilità. Ma solo per ricordarla. Finora non siamo riusciti a fare altro. Lo sguardo si alza verso il Presidente della Repubblica con la richiesta, a momenti affannata, che “faccia qualcosa”, pur sapendo benissimo che la Costituzione (che non aveva previsto una maggioranza parlamentare a pagamento, voto per voto) non lo consente. Ci restano oggi, le sue parole dure contro la Lega padana, il piccolo-grande complice di Berlusconi. Lo sguardo irato e angosciato dei cittadini si è fissato allora sul Parlamento. È subito divampata una polemica carica di ragioni e di prove, su sprechi, privilegi e spese fuori misura. Tutti si devono rendere conto che è un problema (prima ancora, un fatto) che non potrà mai più essere accantonato. Eppure non è per questo che la macchina del Parlamento sta bloccando la nave Italia. Direte che il Parlamento è pigro e assenteista. Non è vero. Purtroppo sta lavorando. Tutto il suo lavoro è al servizio del governo e della sua pretesa rovinosa di restare governo, una sorta di ideologia rappresentata abbastanza bene, in una recente dichiarazione che potremmo chiamare “il Manifesto Lavitola” (diretta del Tg la7 la sera del 28 settembre) ovvero passare avanti e indietro, senza spiegazioni, grandi somme di danaro tra persone ricercate dalla giustizia. Il discredito è grande, come è grande il costo economico (praticamente incalcolabile) di quel discredito.

Nei giorni scorsi un importante giurista, Gustavo Zagrebelsky si è assunto il compito di dire perché il Parlamento, a cui spesso si fa riferimento come al luogo giusto per la vita democratica, sia adesso in Italia il luogo in cui ogni barlume di vita democratica si spegne, e anzi è il luogo e la ragione del blocco. Ecco il punto chiave del documento che Libertà e Giustizia presenterà a Milano il giorno 8 ottobre (già pubblicato dal Fatto il 30 settembre): “Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori dalla presente crisi economica e sociale, al discredito dell’Italia presso altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? (…) Ci pare anche gravemente offensivo del comune senso del pudore politico accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e trasformare il vero in falso e il falso in vero, gettando nel discredito le istituzioni parlamentari e, così, l’intera democrazia”. Ho citato questa dichiarazione estrema perché è la descrizione accurata di un giorno, ogni giorno, al Parlamento italiano. Per esempio , il giorno in cui la Camera dei Deputati ha votato a maggioranza, e con il sistema del “voto di fiducia” una circostanza falsa e palesemente tale, ovvero la dichiarazione del capo del Governo italiano di essere certo che una prostituta minorenne fermata in strada a Milano fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak.

Un simile dileggio dell’istituzione dovrebbe portare rivolta in Parlamento, prima di tutto fra le file della maggioranza, se qualcuno dei suoi membri avesse un minimo di rispetto per se stessa o se stesso. Ma, soprattutto dovrebbe portare rivolta nell’opposizione. Possiamo continuare ad essere soci regolari e partecipi di un club che vuole tenacemente avere nei suoi ranghi Saverio Romano e i suoi legami mafiosi, lo proclama in modo solenne con un voto di fiducia a cui partecipa tutta la Lega Nord (benché non sia in gioco la tenuta del governo, ma il prestigio della Camera dei Deputati) e poi ci fa assistere all’abbraccio fra il rinviato a giudizio per concorso esterno al reato di mafia e il presidente del Consiglio italiano? Possiamo passare avanti, sia pure con amarezza, a lavorare per altri “provvedimenti” di questo governo-gang che attendono di essere votati (cosa che faremo con assiduità e cura, credendo che sia quello il nostro dovere e il legame con i cittadini)? Possiamo dedicarci a migliorare qua e là, con giudiziosi emendamenti in Commissione Giustizia, la nuova legge sulle intercettazioni che i nostri elettori chiamano, fin dall’inizio, “legge bavaglio”?

Dove, da chi abbiamo imparato che un’opposizione segue comunque l’ordine dei lavori stabilito dal governo, e che il governo può sempre imporre la sua volontà alla maggioranza succube? In onore o in omaggio o in ubbidienza a chi o che cosa noi dovremmo concorrere nella responsabilità di svilire l’istituzione cardine della democrazia? L’appello di Zagrebelsky indica con esattezza il punto cruciale del confronto fra sottomissione e liberazione. Posso testimoniare che, dentro il Parlamento, è un punto di solitudine. È diffusa la credenza che un bravo parlamentare non si volta mai indietro a guardare i suoi elettori. Il bravo parlamentare sta al gioco, per quanto iniquo e devastante, un gioco totalmente manovrato da fuori del Parlamento e distruttivo per la Repubblica.

Possibile che si debba lavorare di buona lena insieme con Milanese, con Saverio Romano, con mafia e camorra, con massoneria e gruppi d’affari P3 e P4, con gli svariati e fantasiosi reati compiuti, e in via di compimento,del presidente del consiglio? L’appello di Zagrebelsky dice in modo esplicito e solenne, con la garanzia della persona e del giurista, che una spaccatura grave e profonda divide in modo irreparabile (finché dura la causa) il Paese e i suoi attoniti cittadini dalla istituzione Parlamento. Chiedo con angoscia e rispetto ai mie colleghi della Camera dei Deputati: siamo sicuri che la cosa giusta sia continuare a “lavorare insieme”, tentando di migliorare, emendare e comunque partecipare a vita e avventure di chi ha infettato alla fonte tutto il lavoro e l’esistenza stessa del Parlamento?

Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2011

sabato 30 aprile 2011

siamo morti che camminano.........





Foggia piange Borsellino.
Salvatore: “Le lacrime
continuano a bagnare
Via D’Amelio.
In alto il quadernetto Rosso come l’agenda scomparsa di Paolo..

Più in basso, nel cuore, la forza di una verità troncata, arrestata di fronte alla diga erta dall’esercito di castori romani con sede nei palazzi del potere. Salvatore Borsellino si scioglie così nell’abbraccio di Foggia, con la semplicità di un gesto che chissà quante volte avrà ripetuto.
E chissà in quante altre biblioteche, centri sociali, circoli aggregativi, scuole. Si scioglie al culmine di una testimonianza sentita, emozionale. Di cuore in alcuni tratti, di stomaco in altri.
Tutta la rabbia dei ricordi concentrata in meno di un’ora di monologo a tinte fortissime.

“SIAMO MORTI CHE CAMMINANO”.
“23 maggio – 19 luglio 1992.
Stragi di stato. Misteri da svelare” nasce con questa intenzione, per volontà di Aico ed Acli; più che un semplice convegno. Piuttosto, un contenitore di storia, di verità, di giustizia. Come una testimonianza, come una goccia, l’ennesima, ad erodere il muro di silente indifferenza che ruota attorno ad uno dei periodi peggiori, forse il peggiore, di certo il più oscuro, della Prima Repubblica Italiana. La Dc, i servizi deviati, le bombe, la trattativa Stato-mafia, Totò Riina, Binnu Provenzano, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Nicola Mancino e Luciano Violante. Soprattutto, l’omertà, le verginità ricostituite alla luce dell’antimafia di professione. E quella frase di Borsellino, Paolo, non Salvatore, quell’intervista in cui, con un principio di lacrime ad offuscare lo sguardo speranzoso, il magistrato sussurrava, riferito a se stesso: “Convinciamoci che siamo cadaveri che camminano”.

CINQUE ANNI DI MEMORIA. Il testamento morale. Quello che, come in una staffetta, è passato nelle mani di suo fratello. Per cinque anni, dopo l’omicidio del giudice palermitano, Salvatore Borsellino ha infilato le sue parole sotto i cuscini dei potenti, nelle pieghe dei giovani, negli anfratti della società. In ogni parte d’Italia, ovunque lo chiamassero. Un lustro che, oggi, ricorda paradossalmente con una certa nostalgia come il momento in cui ha sentito la verità in procinto di emergere. Chiara, limpida, argentina.
Lì, schiantata nella rabbia della gente. Racconta, Salvatore, che “dopo la morte di Paolo sono andato in giro per dare a Paolo la voce che Paolo non aveva più”. Ed in quella missione, nell’indignazione di una Palermo che esponeva lenzuoli per urlare un disperato bisogno di antimafia, trovare un senso nuovo. Soprattutto, “la speranza che stesse per realizzarsi il sogno di mio fratello”. E che “si stesse realizzando proprio grazie alla sua morte”.
LA MORTE.
Il fratello del giudice parla di morte con la naturalezza con cui si parla del pane, dell’acqua, di una giornata di pioggia in autunno. 18 anni dopo è normale che, sulle corde vocali, si sia creata una specie di callo che allevia il dolore. Anzi, Salvatore Borsellino reinterpreta la morte, la rilegge come un punto finale. Inchioda l’uditorio alla sorpresa ed all’impegno quando, da fedele, dice che “ringraziai Dio per la morte di Paolo se la sua morte avesse voluto significare la sconfitta definitiva del sistema mafioso”. Perché, in fondo, “mio fratello avrebbe certamente dato la vita per questo fine”.

LE LACRIME BAGNANO ANCORA VIA D’AMELIO
Sul viso di qualcuno iniziano a scendere anche delle lacrime. La ferita aperta dal Semtex in Via D’Amelio è tutt’altro che rimarginata. Su un maxischermo scorrono le immagini di quel giorno che è stato il vero spartitraffico della Storia recente dello Stivale inzaccherato di sangue. L’asfalto sventrato, le carcasse di Fiat anni Ottanta bruciacchiate, vetri distrutti, muri arrossati dalla vita che fugge dal corpo. Scorrono le immagini di quella che, ringhia a muso duro Borsellino, “è non solo strage di mafia, ma strage di Stato”.
Poi prende a sgranare il Rosario che non redime il peccato di silenzio colpevole delle istituzioni. Sono solo nomi: “Piazza della Loggia, l’Italicus, il rapido 904, la Stazione di Bologna”. Ma dietro ci sono storie strane ed inquietanti, connessioni evidenti e non solo menate di giornalisti d’inchiesta o comitati di familiari delle vittime. E fustiga vecchi e nuovi protagonisti di quel teatrino degli orrori che l’indecenza si limita a chiamare, con estremo sforzo di cordialità e formalità, politica. In primis chi, da quella stagione delle stragi, ha approfittato del vuoto politico: Silvio Berlusconi: “Il nostro Presidente del Consiglio – si meraviglio' Borsellino – ha detto che ci sono Procure che sperperano i soldi pubblici per vecchie storie. Ma le lacrime non si sono ancora asciugate sul selciato di Via D’Amelio”.


LA DELUSIONE.
Sforna delusione, Salvatore. In questi anni, il dolore l’ha segnato. Dopo il quinquennio 1992 al 1997, ha trascorso dieci anni in silenzio. Lontano dalle testimonianze, lontano dalla gente, muto ed assente, scorato e “senza speranza”. Lacerato dalla voglia di verità e impietrito dall’impotenza del cittadino semplice. Ricorda i tempi in cui la mafia veniva negata, quel frangente in cui la Chiesa la considerava “un’invenzione dei rossi per mortificare la nostra bella Sicilia” e Vito Ciancimino praticava una sorta di trading collettivo di convincimento finalizzato ad inculcare ad una comunità intera la falsità della propaganda giustizialista. E constata che quei tempi sono anche oggi. Nelle negazioni del sindaco di Milano Letizia Moratti, nel furore di Roberto Formigoni che inveisce contro Vendola che rinfaccia la presenza della ‘ndrangheta negli appalti meneghini, nei Prefetti che storcono la bocca e girano il capo dalla parte opposta. Parla espressamente di “quattro regioni (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia) che sono state sacrificate dalla Nazione alla mafia per tramutarle in un bacino elettorale sicuro, da sfruttare per governare altrove”.

L’AGENDA.
Soprattutto, torna sulla questione dell’agenda di suo fratello Paolo. Quella che ha dato il nome ad un movimento popolare profondamente opposto al sistema criminale e mafioso. Quella che, per usare le parole di Gioacchino Genchi, è “la scatola nera della seconda Repubblica” e che, rincara la dose Borsellino, “è nelle mani di qualcuno ancora adesso”. Qualcuno che “la utilizza come strumento di ricatto politico incrociato”. Come una “minaccia”, una pistola alla tempia, una garanzia d’impunità. Come la carta del Monopoli: “Esci gratis di prigione”. Solo che, in questa sporca storia di fine millennio, ci sono tante bare e poche sbarre.


Scritto da Piero Ferrante Sabato 30 Aprile 2011 Foggia –
Piero Ferrante (fonte: www.statoquotidiano.it, 29 aprile 2011)
p.ferrante@statoquotidiano.it

lunedì 14 febbraio 2011

E bravo cretino!

Rita Pani
14 febbraio 2011
alle ore 10.40
«Quella delle donne è stata una mobilitazione faziosa, vergogna.
Le dimissioni sono una proposta irricevibile, non ho tradito il mandato elettorale né ho tradito le riforme».[Quel tizio debosciato del Consiglio]



E bravo cretino!
Sputa ancora addosso, a chi ti vomita in faccia tutto il disprezzo,
fallo ancora un po’ perché non è bastato.
Vergogna? Detto da un Pacciani dilettante non è nemmeno un’offesa risibile, semmai un’onta, un’altra, che si aggiunge a tutte le altre di cui prima o poi dovrà rendere conto.



Per quanto io non mi sia mai detta fortemente rapita dall’iniziativa di ieri, non convinta né delle motivazioni, né del metodo, non posso accettare l’ennesimo insulto di un uomo da nulla che sempre più dà i segni dello squilibrio che lo attanaglia nel suo mondo surreale, dominato dal potere del danaro, capace di corrompere chi ha messo in vendita tutto di sé, compresa la dignità.

E bravo cretino!
Ha dovuto invitare milioni di donne a vergognarsi, lui che non sa cosa sia la vergogna. È un sentimento che dovrebbero provare i suoi figli pensandolo rinchiuso in un bunker sotterraneo, dove con la sua follia non pensa a conquistare o distruggere il mondo, ma guarda donne poco più che bambine, strusciare il culo contro un palo.
Ed è diversa da quella vergogna che certi figli provano davanti a un padre che non riconoscono, perso a vagare per strada in pigiama e pantofole, abbandonati dai loro pensieri.
Non è quella tenerezza che forse solo assomiglia alla vergogna, quella che dovrebbero provare i suoi figli, ma è l’orrore di avere un maniaco come padre, pericoloso per sé e per il suo patrimonio, deleterio per un’intera popolazione e che, se fossero furbi, provvederebbero a far interdire.
Sono una donna, una persona imperfetta, ma non accetto che mi si dica che in quanto donna io debba vergognarmi, perché le donne hanno voluto dire, gridando, che mai si venderebbero a un vecchio maiale, né per un piatto di minestra, né per un posto da ministra. La libertà, quella che la sua mente malata e i suoi pubblicitari ci hanno rubato, è un bene che non si compra ma si conquista. La libertà, quella vera, quella nostra lui ce la dovrà rendere prima o poi.
Cretino!
Non c’è proprio nulla per cui ci si debba vergognare, se non quella di aver troppo tardi iniziato ad alzare la testa, impegnati come eravamo a combattere altre lotte, come quelle per il lavoro o la sopravvivenza, che abbiamo sempre perso proprio perché nulla si può contro i cretini. Non c’è verso di indurli alla ragione, non si può spingere un cretino a guardare alle cose con un altro occhio, con una diversa prospettiva. Un cretino è un cretino. E quel tizio è il primo dei cretini, che paga qualcuno per pensare per lui.
Non c’è vergogna a tener alta la testa.
Non c’è vergogna nell’accorgersi pian piano che è giunto il momento di farsi valere per ciò che siamo – non solo donne – ma esseri umani.
L’unica vergogna che son disposta a concedermi è quella di sapere che non farò mai abbastanza per far sì che un cretino, megalomane, maniaco sessuale e drogato di sé stesso, continui a gettare le vite di persone per bene nella consunzione in cui le ha gettate, di povertà e disperazione, di tristezza e solitudine.
Forse proprio le giornate come quelle di ieri fanno sì che si possa credere, forse solo per un istante, che è possibile smettere, finalmente, di vergognarsi.
Rita Pani (APOLIDE)